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Il debutto a Santa Cecilia di István Várdai, erede della scuola violoncellistica ungherese

di Mauro Mariani

István Várdai è l’erede della scuola violoncellistica ungherese, che negli ultimi centoventi anni ha prodotto almeno un illustre violoncellista per ciascuna generazione, a cominciare da Adolf Schiffer, che fu un grande didatta ed ebbe tra i suoi allievi Pál Hermann, membro del leggendario Quartetto Ungherese nonché famoso concertista, che fu ucciso nei campi di sterminio, e Janos Starker, che non può essere dimenticato da chi, ora inevitabilmente non più giovane, ha potuto ascoltarlo dal vivo. Ancora in attività è Miklós Perényi, che ha studiato all’Accademia Liszt di Budapest e si è perfezionato all’Accademia di Santa Cecilia con Enrico Mainardi. L’ultima generazione è rappresentata appunto dal trentanovenne Várdai.

Per il suo debutto con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia ha scelto il secondo dei due Concerti per violoncello di Dmitrij Šostakóvič. Composti rispettivamente nel 1959 e 1966, questi Concerti non rientrano – a torto – nel repertorio più frequentato dai violoncellisti ma il secondo è eseguito ancor più sporadicamente del primo. Proprio il secondo, ascoltato in quest’occasione, è il più significativo dei due e il più rappresentativo della personalità del compositore russo e in particolare del suo ultimo periodo. Probabilmente né l’uno né l’altro sarebbero mai nati se non fosse esistito quell’astro del violoncello che risponde al nome di Mstislav Rostropovič, a cui sono dedicati e sulle cui capacità sono tarati: ne consegue che Šostakóvič non si è assolutamente preoccupato della difficoltà di questi due Concerti.

Tali difficoltà non sembrano aver minimamente turbato Várdai, che ha affrontato il Concerto n.2 (da lui anche inciso recentemente) senza fare una piega. È un interprete sommamente elegante nel significato più profondo del termine e il suo virtuosismo si concretizza precipuamente nella fluidità, agilità e leggerezza con cui esegue ogni passaggio e nella purezza e luminosità del timbro. Queste sue qualità rifulgono nell’introspettivo primo movimento, un Largo tragico e tetro. Negli altri due movimenti, entrambi Allegretto, si mescolano - come spesso in Šostakóvič - stlli e caratteri tra loro stridenti: il sarcasmo livido, la chiassosa euforia, il pessimismo funereo. Forse Várdai avrebbe potuto puntare di più sugli stridenti contrasti creati da queste commistioni di elementi inconciliabili, ma la sua esecuzione precisa al millimetro di ogni singola nota permetteva comunque ad ogni ascoltatore di scoprire da sé queste atmosfere acidule e pessimistiche, tipiche di Šostakóvič.

Várdai suonava il violoncello Antonio Stradivari del 1673 - suonato per vent’anni da Jacqueline Du Pré e dopo di lei da Lynn Harrell, Nina Kotova e Michael Guttman - che, nonostante le dimensioni superiori alla norma, non ha un suono particolarmente potente, come tutti (o quasi tutti) i violoncelli di Antonio Stradivari, creati per suonare nella sala di un palazzo con l’accompagnamento del basso continuo e non in un auditorium di duemilasettecento posti con l’accompagnamento di un’orchestra novecentesca. Questi appunti non significano che, tirando le somme, Várdai non sia un ottimo violoncellista, che ci auguriamo di riascoltare presto.

Dirigeva Tukan Sokhiev, tra i migliori direttori russi insieme a Valerij Gergiev, che è di venticinque anni più anziano e che è stato - giustamente o ingiustamente che sia - messo al bando in occidente per le sue posizioni filo Putin. Ma Sokhiev è molto diverso da Gergiev: non è altrettanto sanguigno e focoso nelle scelte musicali (e politiche) ma al contrario è molto misurato, controllato, raffinato. In Šostakóvič è sulla stessa lunghezza d’onda di Várdai. In Shéhérazade dimostra un senso spiccatissimo dei colori preziosi e sfavillanti e un’eleganza dei dettagli, che seducono con la loro sensualità e affascinano con la loro capacità affabulatoria di narrare con i suoni queste esotiche e favolose storie delle Mille e una notte. E evidentemente ha creato una grande intesa con l’orchestra romana, che ha suonato magnificamente. In particolare le prime parti sono state superlative e si vorrebbe citarle tutte, così come Sokhiev le ha fatte alzare tutte, una alla volta, per raccogliere la loro giusta dote di applausi. Ma elencarle tutte sarebbe troppo lungo e quindi ci limitiamo alla spalla Carlo Maria Parazzoli e al primo oboe Francesco Di Rosa, che hanno ruoli di particolare rilievo. Sia Várdai (che ha ringraziato suonando il Capriccio n.3 di Alfredo Piatti, “il Paganini del violoncello” secondo la definizione di Liszt) sia Sokhiev sono stati applauditi a lungo dal pubblico entusiasta, tra cui si notavano con piacere molti giovani.

Fotografie: R. Musacchio

Replica del concerto di venerdì 28 febbraio 2025
AUditorium Parco della Musica, Roma