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Smetana e Fibonacci, un connubio vincente a Bolzano

di Johannes Streicher

Uno dei grandi crucci della mia vita di ascoltatore di musica da camera è quello di aver perso l’occasione di assistere dal vivo a dei concerti di quelli che – con ogni probabilità – furono i due migliori quartetti del secondo Novecento: il Quartetto Italiano (mai udito per ragioni anagrafiche) e il Quartetto Amadeus (sfuggitomi per motivi geografici). Poi mi sono parzialmente rifatto, assistendo a concerti meravigliosi dei Quartetti Juilliard (1979), Melos (1985 e 1986), Carmina e LaSalle (1986), Accardo e Borodin (1987), Arditti (1988 e 1998), di Torino (1994), Alban Berg e Quartetto di Roma (1999), di Lipsia (2000), e via dicendo, per citarne solo quelli che più mi sono rimasti impressi. Ricordo bene le sonorità piene e rotonde di molti dei quartetti in attività negli anni Ottanta e Novanta, ma è da un po’ che mi chiedo se io abbia perso davvero già una porzione così importante del mio udito, o se, piuttosto, da qualche tempo si stia assistendo a una trasformazione palese del gusto di una parte dei quartetti attuali. Possibile che così sovente si privilegino dei livelli minimi di fonicità, al limite dell’udibile? O sono io che sto diventando sordo? All’età di quasi sessant’anni non sarebbe poi così improbabile (anche se il fenomeno sarebbe nettamente in anticipo sui tempi realisticamente paventati).

Stando seduto in terza fila in posizione centrale nella Sala Arturo Benedetti Michelangeli del Conservatorio di Bolzano, magari non bellissima (perché debitrice di tendenze d’arredamento Neue Sachlichkeit degli anni Quaranta/Cinquanta), ma dotata di un’acustica invidiabile, equamente godibile in ognuno dei suoi quattrocento posti (di dimensioni, pertanto, ideali per la musica da camera), mi chiedevo se davvero ci fosse bisogno di rendere il Quartetto op.76 n.4 di Haydn con dei chiaroscuri talmente esasperati da posizionarlo vicino al tardo Beethoven. Visto che il programma – molto indovinato – del Fibonacci Quartet terminava proprio con l’opera 131 beethoveniana, racchiudendo tra Haydn e quest’ultimo il Primo Quartetto di Smetana, in realtà abbiamo avuto la sensazione di aver ascoltato qualcosa come tre Quartetti del tardo Beethoven, di cui il primo e il secondo corrispondenti ai numeri d’opera 145 e 168

La prassi esecutiva cosiddetta storicamente informata, oltre a parecchi stimoli interessanti, ha suggerito anche un paio di stranezze a diversi interpreti dalla formazione classica, finendo, ad esempio, per far perdere un po’ la fisionomia originaria a una violinista di livello inizialmente superlativo come Viktoria Mullova, che più di una volta mi è sembrata ormai né carne né pesce… I Fibonacci, viceversa, appartenendo a una generazione successiva, hanno assimilato in maniera diversa quello che sembra, ahinoi, lo spirito del nostro tempo (esisterà?!). Certi attacchi violenti, una certa grinta talvolta gratuita perché scatenata su un Haydn inerme, certi tentativi di risalire alle fonti popolari di motivi da altri resi con meno impeto folk, hanno comunque fatto il paio con un’intonazione di rara perfezione e con delle leggerezze di colpi d’arco di mendelssohniana eleganza, che hanno finito per far apparire il buon vecchio papà Haydn in una nuova luce.

Dopo l’opera 76 n.4 la bravissima Luna De Mol ha lasciato lo scranno del primo violino al ceco Kryštof Kohout, il quale ha trascinato gli altri tre – la su lodata violinista belga, l’inglese Elliot Kempton alla viola e lo scozzese Findlay Spence al violoncello – a un’interpretazione davvero toccante del Quartetto in Mi minore di Smetana, con la quale è stato raggiunto uno dei vertici dell’arte quartettistica odierna.

L’idiomaticità dell’eloquio dei Fibonacci sembrava della più pura acqua boema, e quel misto di toni popolareggianti (specie nell’Allegro moderato à la Polka) e di irruzione della tragedia della sordità, condita con un sovracuto da tinnitus, ha finito per commuovere il pubblico bolzanino, che non ha fiatato, lasciando sfumare la fine repentina e sorprendente del Quartetto senza attaccare precocemente con degli applausi che sarebbero sembrati del tutto inopportuni. Quando poi abbiamo finalmente osato battere le mani, lo si è fatto con grande convinzione, dovuta a una resa di livello superiore, alla pari con interpretazioni storiche.

Appena un po’ meno commovente, ma di qualità sempre eccellente, l’esecuzione del Quartetto in Do diesis minore di Beethoven: Luna De Mol, nuovamente tornata al ruolo di prima inter pares, ha conferito un suggello vagamente isterico anche a quest’opera, che qui comunque era almeno parzialmente giustificato dalla particolare fisionomia di questo lavoro incredibile, diviso in sette movimenti, uno più peculiare dell’altro. Solamente lo stacco di un tempo assolutamente forsennato nel Presto ha finito per scombussolare il violoncellista, alle prese con qualcosa che si è rivelato essere imprendibile…

Consensi giustamente entusiastici del pubblico, non enorme, ma attentissimo, hanno indotto i simpatici membri del Fibonacci Quartet a regalarci due bis decisamente desueti, e cioè un solenne tempo bachiano e un simil-Morricone, tra i più indovinati Italian love themes, come è stato annunciato, arrangiato, a quanto pare, proprio dai nostri. Una serata memorabile.

Foto: Julia Bohle

Concerto di mercoledì 5 marzo 2025
Conservatorio "Monteverdi", Bolzano