Image

Il ritorno a “Trame Sonore” del violino di Dora Schwarzberg

di Luca Segalla

Con Martha Argerich e Dora Schwarzberg a Trame Sonore saltano le regole, visto che i loro recital cameristici iniziano con una buona mezz’ora di ritardo, cosa mai vista in un festival in cui decine di appuntamenti si incastrano per tutta la giornata con la precisione di un meccanismo a orologeria, spesso in contemporanea in più sedi, e alla fine vengono concessi i bis, a Mantova praticamente vietati per una legge non scritta.

Alle dive si concede questo e anche altro e infatti le lunghe file all’ingresso e la mancanza di posti vuoti in sala per entrambi i due brevi concerti (poco più di mezz’ora di musica, come a Trame Sonore si usa) testimoniavano tutto l’affetto del pubblico. Martha Argerich ha ottantadue anni, Dora Schwarzberg settantasette e il tempo, inesorabile, non si è fermato nemmeno per loro, pur abituate ad abbeverarsi a quella fonte dell’eterna giovinezza che è la musica. In realtà la pianista argentina, se nel passo insicuro e nell’aria sofferente porta i segni dell’età, alla tastiera sembra aver fatto un patto con il diavolo, perché sfodera la sicurezza digitale, l’inquietudine nell’agogica e la sbarazzina sprezzatura di sempre; Dora Schwarzberg, invece, con il diavolo non ha fatto alcun patto, anzi la sorte le si è accanita contro, considerato che nel 2016 a seguito di una caduta ha subito un’operazione alla spalla che l’ha costretta a una lunga convalescenza. Non suonava in pubblico da allora e la decisione di tornare ad esibirsi dopo sette anni proprio nella città dove aveva dato il suo ultimo recital ha qualcosa di commovente. Fatica molto, Dora Schwarzberg, e la sua non è solamente la fatica fisica di chi avanza incerta sul palcoscenico per poi suonare seduta su una comoda poltrona, è soprattutto la fatica di una violinista che ha perduto molti automatismi e si vede costretta a procedere con prudenza, perché l’agilità e la pulizia dell’intonazione appartengono ad anni lontani - il tempo è impietoso con gli strumentisti ad arco - e il corpo fatica a reagire alle sollecitazioni della mente e del cuore.

Lo si è capito subito nel recital di giovedì 1 giugno, in quel piccolo gioiello di colori e di acustica che è il Teatro Bibiena, nelle battute iniziali del primo dei tre Fantasiestücke op.73 di Robert Schumann (l’originale è per clarinetto e pianoforte, però i Fantasiestücke funzionano bene anche con il violoncello o il violino), nel quale la Argerich l’ha guidata con amorevole accondiscendenza e lo si è capito ancora di più nel terzo, il più impetuoso, nel quale la violinista austriaca faticava all’inverosimile nei passaggi di agilità. Tutto da dimenticare, allora? Sul piano strettamente esecutivo forse, anche se, a sprazzi, come per incanto, si ritrovavano le magie di una violinista che comunque anche nei suoi anni migliori era imprevedibile e discontinua. Il terzo dei Fantasiestücke op.73, per esempio, aveva tutto un altro sapore riascoltato nel bis del recital del giorno successivo nella Galleria degli Specchi a Palazzo Ducale, come se Dora Schwarzberg avesse ripreso un poco di confidenza con il pubblico. Lo stesso è accaduto nella Sonata per violino e pianoforte di Debussy, eseguita al Teatro Bibiena tutta sul filo del rasoio dell’incertezza, il cui secondo movimento scorreva però decisamente più fluido.

Le vere emozioni dei due concerti erano legate in ogni caso ad altro, alla sensazione che Dora Schwarzberg cercasse ancora una volta il contatto con il pubblico e al pubblico, che infatti in entrambe le serate l’ha ricambiata con grande affetto, avesse ancora qualcosa da raccontare: non l’ostinazione degli interpreti incapaci di lasciare il palcoscenico anche quando fisicamente proprio non ce la fanno più, quanto una testimonianza di dedizione assoluta alla musica. Ancora più commuovente è stato vedere la rappresentazione di un’amicizia, certo esibita in pubblico ma autentica tra due artiste che la musica non si limitano a farla insieme ma la vivono insieme. Commuovente è stato il gesto di Martha Argerich, che al termine della serata al Teatro Bibiena ha preso per mano Dora Schwarzberg per accompagnarla fuori dal palcoscenico, commuovente è stato vedere come la assecondasse al pianoforte, ora rallentando un poco il tempo, ora trovando dei colori più sfumati del solito, in un dialogo fatto anche di sottintesi. Alla tastiera la Argerich era sempre lei, con i suoi guizzi improvvisi, la sua agilità digitale che il tempo poco è riuscito a scalfire, la sua iridescenza timbrica (pazzesco il secondo dei Fantasiestücke schumanniani), però in tanti momenti delle due serate dopo un’improvvisa accensione ha fatto subito un passo indietro, quasi a non voler mettere in difficoltà la compagna. Era sorniona la Argerich, come spesso le capita di essere, soprattutto nei Märchenbilder op.113 di Schumann nel concerto al Palazzo Ducale, dove accompagnava la figlia della Schwarzberg, la violista Nora-Romanoff Schwarzberg, o per meglio dire la guidava nei meandri di una partitura tutta chiaroscuri tra i quali lei, alla tastiera, era perfettamente a suo agio. Anche nelle trascrizioni per violino, viola e pianoforte di tre dei Sei Studi canonici per pianoforte a pedale op.56 di Schumann, al termine dello stesso concerto, si avvertiva uno scarto tra la ricchezza timbrica della Argerich e l’uniformità di colore in cui restavano impastoiati i due archi. Eppure, anche in questo caso, il violino di Dora Schwarzberg ha avuto un sussulto, nell’attacco del terzo brano, malinconico e rassegnato, lasciando negli ascoltatori un dubbio: un addio o l’inizio di un’ultima, crepuscolare fase di una lunga carriera?

Un ampio reportage su Trame Sonore uscirà su Archi Magazine di luglio-agosto 2023.

Fotografie di Stefano Bottesi

fotografie