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Festival della Chigiana: Ilya Gringolts e il Quartetto Prometeo aprono nel segno del Novecento e della musica contemporanea

di Luca Segalla

Ai concerti estivi dell’Accademia Musicale Chigiana - l’International Festival & Summer Academy celebra la decima edizione - antico e nuovo si intrecciano, pagine di repertorio si affiancano a prime esecuzioni assolute e la musica dei nostri giorni risuona tra le preziosità neo-rococò della splendida sala da concerto di Palazzo Chigi Saracini. Siena è così, una città aperta al mondo e nello stesso tempo radicata nel suo passato, di cui danno testimonianza i cortei della contrada vincitrice del palio, tenutosi proprio il giorno precedente l’inaugurazione del Festival, e un patrimonio di chiese e musei da far girare la testa al visitatore. Una città grondante d’arte e di storia ma a suo modo discreta, piena di angoli segreti, vivace e tranquilla insieme, proprio come il Festival della Chigiana, pieno di proposte e di suggestioni e aperto - è una vocazione antica dell’Accademia fondata dal Conte Guido Chigi Saracini e attiva dal 1932 - alla musica contemporanea. La Chigiana del resto è una realtà dinamica, se pensiamo non soltanto ai 400 allievi selezionati per i corsi di quest’anno, provenienti da quasi 60 nazioni, e agli oltre 100 concerti del Cartellone estivo, ma anche al fatto che è stata l’unica istituzione di alta formazione musicale al mondo - come ha ricordato il Direttore artistico Nicola Sani - a non essersi fermata durante il Covid, sfruttando i mezzi della moderna tecnologia.

Tutto proiettato a esplorare i confini della musica di oggi è stato il concerto di sabato 6 luglio del Quartetto Prometeo, dal 2013 “quartetto in residence” della Chigiana,  a Palazzo Chigi Saracini, con l’inquieto Quartetto n.1 “Métamorphoses nocturnes” composto tra il 1953 e il 1954 da un trentenne György Ligeti ancora legato al lascito musicale di Béla Bartók, e due prime esecuzioni assolute, una nuova versione del Quartetto n.8 “delle Seste” di Salvatore Sciarrino (classe 1947), docente della Chigiana, e Smiling Crash Center di Emanuele Casale (classe 1969), che di Sciarrino è stato allievo (entrambi i compositori erano presenti in sala). Smiling Crash Center, prima parte di una più ampia composizione in sette movimenti destinata alla danza e ancora in fase di completamento, mescola con spavalderia citazioni dal repertorio barocco e classico da una parte, come il gesto sonoro iniziale che richiama palesemente l’attacco dello Scherzo della Nona Sinfonia di Beethoven e l’improvviso apparire di un frammento dell’Allegro non molto dall’Inverno delle Quattro Stagioni di Vivaldi, e dall’altra un linguaggio mutuato, per ammissione dello stesso compositore nel corso della breve presentazione del brano all’inizio del concerto, dai videogiochi vintage. È una scrittura sbarazzina quella di Smiling Crash Center, in cui convivono senza attriti musica d’uso, rock, tradizione colta e linguaggio tonale, nel segno di uno spiccato vitalismo ritmico colto molto bene dai quattro del Prometeo.

Nurik Stark, nuovo primo violino dell’ormai storico quartetto - è sulle scene da una trentina d’anni - arrivata da un paio di mesi appena ma già perfettamente integrata con i compagni, il violinista Aldo Campagnari, la violista Danusha Waskiewicz e il violoncellista Francesco Dillon hanno saputo rendere con estrema precisione anche le atmosfere rarefatte e le sonorità sottili e taglienti del Quartetto n.8 di Salvatore Sciarrino, pagina che inizia in un inquietante biancore timbrico per poi acquistare un sempre maggiore peso sonoro, sia per l’infittirsi della scrittura sia per il progressivo allungarsi del respiro melodico. Un compositore di solito piuttosto intellettuale come Sciarrino in questo caso punta all’emotività, infatti nonostante le arditezze del timbro, ottenute anche in virtù di una gamma piuttosto ampia di modalità di produzione del suono, sul piano dell’armonia prevalgono le consonanze, grazie alle quali il Quartetto si orienta progressivamente verso la cantabilità.

I quattro del Prometeo hanno saputo rendere anche l’incandescenza emotiva del Quartetto n.1 “Métamorphoses nocturnes” dell’ungherese György Ligeti (1923 - 2006), al quale questa edizione del Festival dedica un importante focus, nei suoi sofferti cromatismi, nel suo lirismo segreto di natura bartokiana e nei suoi rabbiosi scarti ritmici (anche questi desunti da Bartók) in un’interpretazione travolgente oltre che impeccabile per la cura dell’intonazione e la qualità dell’amalgama timbrico. Come si è detto quello del Quartetto n.1 è un Ligeti ancora molto legato alla tradizione del primo Novecento di area slava e ungherese, anche nella sua sostanziale adesione al linguaggio tonale, eppure capace di generare una forte tensione emotiva nel continuo brusco alternarsi tra sezioni liriche e sezioni mosse fino a una conclusione quasi spettrale nella sua rarefazione sonora, a conferma della natura dolorosamente privata di un lavoro che il compositore aveva scritto sostanzialmente per sé, senza pensare a una possibile esecuzione.

 

Altro è l’orizzonte estetico del Concerto per violino composto da Ligeti tra il 1990 e il 1992 per il violinista Saschko Gawriloff, affrontato da Ilya Gringolts (altro docente della Chigiana) il 5 luglio nella serata di apertura del Festival al Teatro dei Rinnovati, che si trova all’interno del Palazzo Pubblico, in Piazza Il Campo, insieme all’Orchestra della Toscana e al Chigiana Percussion Ensemble, con Marco Angius sul podio. È una pagina molto esigente per l’interprete, caratterizzata dal continuo ricorso ai suoni armonici e ai glissanti e soprattutto da gesti sonori di forte impatto visivo e teatrale, che Gringolts ha risolto da gran virtuoso, in una interpretazione accesa e materica, molto più incisiva della pur interessante prima registrazione mondiale del dedicatario Saschko Gawriloff testimoniata in un CD Deutsche Grammophon. È stata un’interpretazione spesso anche ruvida come è del resto il violinismo spettacolare e travolgente di Gringolts (lo ricordiamo proprio in un concerto al Festival estivo della Chigiana nel 2021, quando affrontò senza alcuna esitazione una raccolta di iperbolico virtuosismo come i sei Capricci per violino solo di Sciarrino), travolgente ma sempre accurato nel controllo dell’intonazione (stupefacenti gli armonici iniziali) e del colpo d’arco. Nei momenti più lirici, soprattutto nel secondo e nel terzo movimento, Gringolts ha esibito il suo consueto cantabile corposo e denso, ben sostenuto dal vibrato, cercando un suono espressivo e in simbiosi con la massa orchestrale piuttosto che un astratto “bel suono”, per poi dare libero sfogo al suo virtuosismo nella Cadenza poco prima della conclusione del quinto e ultimo movimento del Concerto. Uso della microtonalità (per alcuni strumenti in orchestra è prevista una “scordatura”), melodie modali di matrice popolare, la tecnica medievale dell’“hoquetus”, le tecniche rinascimentali e barocche della Passacaglia e della Fuga, momenti di accesa percussività (un plauso va fatto ai due percussioni ascoltati a Siena, Francesco Conforti e Antonio Gaggiano), una cantabilità quasi romantica e un virtuosismo acceso si mescolano e si alternano in una partitura stilisticamente disomogenea e con momenti stranianti, come l’“hoquetus” affidato alle sonorità stridule delle ocarine, ma unitaria dal punto di vista emotivo: arrivare al pubblico è una caratteristica della musica di Ligeti, anche quando è molto complessa nella sua costruzione formale, ma perché ciò avvenga è necessario avere interpreti all’altezza, capaci non solo di entrare in sintonia con l’estetica ligetiana ma anche di rendere con precisione, come accaduto nel concerto a Siena, tutti i dettagli di una scrittura che non fa sconti a nessuno, né al solista né all’orchestra.

Nella seconda parte della serata l’Orchestra della Toscana ha affrontato uno dei capolavori dell’ultimo Bartók, il Concerto per orchestra del 1943, pagina dalle sonorità asciutte e taglienti e dal lirismo intimo e sofferto che ha illuminato retrospettivamente l’ascolto del Concerto per violino di Ligeti, un compositore che anche negli anni della maturità e delle sperimentazioni più ardite non ha mai rinnegato l’originario legame con il modello estetico bartokiano. Angius ha puntato su una lettura asciutta ed essenziale, ben assecondato da un’orchestra capace di sonorità sottili e taglienti (i fiati, però, non sempre erano incisivi) e di un fraseggio pieno di mistero, come ha rivelato in particolare l’inizio serpeggiante del terzo movimento; molto precisa è stata anche la resa della Fuga del quarto movimento.

Ad aprire la serata, invece, c’era Anhait, “poema lirico dedicato a Venere per violino e 18 strumenti” composto nel 1965 da Giacinto Scelsi, musica sospesa nel silenzio e caratterizzata dall’assenza di qualsiasi forma di sviluppo, i cui riferimenti estetici sono il mondo buddista e zen, che ancora oggi spiazza l’ascoltatore nel suo presentarsi come apparizione sonora piuttosto che come discorso. Parlare di “composizione” in questo caso risulta difficile, anche perché com’è noto Giacinto Scelsi improvvisava i suoi lavori al pianoforte o su una rudimentale tastiera elettronica registrandoli su nastro e affidando quindi a dei collaboratori il compito di trascriverli (o rielaborarli?) sul pentagramma. È musica frutto di una sorta di automatismo creativo, come certi romanzi della “Beat generation” americana degli anni Cinquanta, che lascia interdetti e insieme affascina, che respinge e insieme cattura, soprattutto se eseguita con la precisione e la partecipazione emotiva di Gringolts e dell’Orchestra della Toscana: erano emblematiche di questa autenticità dell’approccio le battute iniziali, con una serie di fasce sonore che si spostano lentamente per semitoni ascendenti, in una dimensione dove il movimento è molto rallentato, come accade nei sogni.

Fotografie: Roberto Testi, courtesy of Accademia Musicale Chigiana