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Bolzano Festival Bozen: Vienna da Schubert a Mahler (via Amburgo)

di Johannes Streicher

Bolzano non solo ospita da decenni le orchestre giovanili più prestigiose (European Union Youth Orchestra e Gustav Mahler-Jugendorchester), ma su gentile pressione di Claudio Abbado nel 1999 vide anche la fondazione di corsi di perfezionamento strumentali estivi/autunnali, messi in atto da un nuovo organismo, l’Accademia Gustav Mahler. Affidata dal 1999 al 2005 alle cure di Alfred Altenburger (violinista dei Wiener Philharmoniker) e poi del violista tedesco Jürgen Kussmaul (2006-2012), dal 2013 è diretta da Philipp von Steinaecker. Amburghese, violoncellista e direttore d’orchestra, da qualche anno persegue un progetto assai interessante: il cosiddetto Originalklang-Projekt. Non contenti di occuparsi solo di musica antica (soprattutto ‘barocca’), i fautori della prassi esecutiva storicamente informata ormai sono avanzati fino a Ottocento inoltrato (vedi l’Aida di Nikolaus Harnoncourt, peraltro nient’affatto male, molto meglio di certo suo Mozart…, o il tardo Brahms su pianoforti d’epoca), ma mancava ancora Mahler. Solo che il mezzo fake dei cosiddetti strumenti originali consisteva in molti casi di copie, mentre gli autentici violini di Stradivari, Guadagnini e Guarneri continuavano a essere utilizzati come si è sempre fatto, senza tante fisime… Ora, però, qualcosa è cambiato: dopo lunghe ricerche, fortunose scoperte e attenti restauri, parecchi degli strumenti acquistati nel periodo della direzione di Mahler dell’Opera di Vienna (1897-1907) sono tornati a nuova vita. L’anno scorso a Bolzano e a Dobbiaco, luogo delle ultime vacanze estive di Mahler, in cui compose Das Lied von der Erde, la Nona Sinfonia e le prime parti della Decima (1908-1910), è stata presentata l’ultima sua Sinfonia compiuta, diretta da Steinaecker, a capo dell’Orchestra dell’Accademia Mahler, dotata degli antichi (o comunque storici) strumenti di centoventi anni fa, con effetto fonico sorprendente (nel frattempo è uscito anche il CD relativo).

Per festeggiare i primi venticinque anni dell’Accademia Mahler, quest’anno non solo si prosegue sul cammino intrapreso (con la Quinta Sinfonia di Mahler diretta da Steinaecker e il Terzo Concerto di Rachmaninov, eseguito da Leif Ove Andsnes su uno Steinway del 1910), ma si sono fatte le cose in grande, chiamando Sir John Eliot Gardiner a dirigere l’altro concerto della Mahler Academy Orchestra (come ormai è stata ribattezzata, vista la globalizzazione inarrestabile). Anzi mezzo concerto, dato che nella prima parte, secondo una formula già sperimentata nella sala del Palazzo Mercantile, diversi gruppi strumentali hanno presentato singoli movimenti di musiche cameristiche, anch’esse eseguite “su strumenti originali viennesi del 1900”.

Dopo l’avvio con il terzo movimento del Quintetto per fiati op.26 di Schönberg, in cui ben risaltava il suono più scuro e più caldo del solito, il resto della serata era tutto affidato agli archi. Si sono così susseguiti la Serenata Italiana di Hugo Wolf, le Sei Bagatelle op.9 di Webern e il primo tempo del Secondo Quartetto (op.10) di Schönberg, in esecuzioni attente, ma tutto sommato forse non calibratissime (i Quartetti del grande Arnold sono troppo difficili per poter essere messi su in quattro e quattr’otto da musicisti, per quanto bravissimi, che probabilmente si sono conosciuti solo pochi giorni prima).

La prima parte culminava con il quarto e ultimo tempo dell’Ottetto op.7 di George Enescu, eseguito in maniera trascinante da un ensemble che più internazionale non sarebbe potuto essere (Polina Senatulova, Zuzanna Kuklińska, Bérénice Awouters, Marie Stiller, Teresa Roldan Cervera, Joseph Lowe, Manon Leroux ed Emma Warmelink, in parte già impiegati in precedenza, in Wolf e Schönberg): peccato che ci si sia limitati al meraviglioso Mouvement de valse bien rythmée, perché, data anche la rarità delle esecuzioni dal vivo di questo capolavoro giovanile, sarebbe stata un’ottima occasione per goderne in toto, visto l’eccezionale livello strumentale degli otto strumentisti, tutti in piedi – tranne ovviamente i violoncelli –, secondo la moda attuale. (Se si ascoltano degli Ottetti, si privilegiano naturalmente quasi sempre Mendelssohn e Šostakovič, eppure ci sarebbero anche Spohr o Glière…)   

Dopo l’intervallo, dunque, è salito sul podio Sir John Eliot Gardiner, al suo debutto, credo, a Bolzano, alla tenera età di ottant’anni (magnificamente portati), che ha voluto dirigere quello strano ibrido che è la trascrizione per orchestra d’archi del Quartetto in re minore D810 “La morte e la fanciulla” di Schubert da parte di Gustav Mahler. Si tratta di un peccato di gioventù, visto che risale al 1894, al suo periodo amburghese, quando forse ancora stava cercando il “suo” suono. (Poi notoriamente l’ha trovato, con successo planetario.) Nonostante un’esecuzione tecnicamente (quasi) perfetta – l’attacco era un po’ sfocato (irraggiungibile la coesione del Quartetto Borodin, artefice di un cataclisma sonoro affilato all’unisono già nelle prime battute) –, continuo a essere dell’avviso che sostanzialmente Mahler qui abbia “violentato” Schubert. Ci sarà un motivo se questi come organico ha scelto il quartetto… Anche Leonard Bernstein volle dirigere gli archi dei Wiener Philharmoniker nel Quartetto in do diesis minore di Beethoven, ma io preferisco pur sempre il Quartetto Amadeus o il Koeckert-Quartett, cosa volete che vi dica. Notevole l’ampiezza delle file (nove primi violini, guidati da Afanasy Chupin – a cui si devono i begli assoli, in cui venne ben assecondato dalle altre prime parti, Stefan Arzberger, Volker Jacobsen e Gustaw Bafeltowski –, otto secondi, sette viole, cinque violoncelli e tre contrabbassi), esaltante la potenza sonora, grandiosa la resa precisissima del Presto finale, una corsa all’unisono già molto difficile da realizzarsi in quattro, figuriamoci in trentadue! Allora cos’è che non andava? Nulla, era tutto ottimo. Ma mancava la ‘viennesità’. L’organico grande a tratti suonava come uno studio sovradimensionato, nel secondo tempo a momenti si aveva la sensazione di assistere a una Ciaccona di Vitali super-arrangiata o a una Follia di Corelli-Tartini rivista da Leopold Stokowski (non voglio spingermi a ipotizzare una vicinanza con Annunzio Paolo Mantovani, con i suoi Mantovani Cascading Strings, croce e delizia di molti ascoltatori – presumo non solo italo-americani – degli anni Cinquanta). Non che sia male, per carità, a chi piace. Il quarto tempo era strepitoso, ma non era schubertiano, sic et simpliciter.

Al pubblico, a ogni modo, è piaciuto molto; la (finalmente riassestata) Sala Michelangeli, di quattrocento posti, dove il concerto è stato spostato, anziché essere tenuto nel suggestivo Chiostro dei Domenicani, più raccolto ma meno capiente, era praticamente piena, cosa che a Bolzano capita assai raramente (a memoria d’uomo l’ultima volta fu con Les Vents Français, nel 2017). E il successo è stato notevole. Grazie, dunque, a Sir John Eliot Gardiner, che ha rinnovato i fasti dell’esordio memorabile di Lahav Shani, che risale al 2018. Il suono viennese del 1900 continuerà ad affascinarci.